[ trad. it. di S. Pareschi, Einaudi, Torino 2016 ]
In Purity di Jonathan Franzen nulla accade per caso, come nei migliori romanzi di spionaggio a cui l’autore guarda esplicitamente. La protagonista, Purity Tyler, è proiettata in un groviglio di illusioni, spie, inganni giornalistici e segreti informatici. Tutto appare finzione, come ci insegna la storia che dà inizio all’intreccio e che riguarda un finto furto di una (altrettanto finta) testata nucleare. Il globo diventa lo scacchiere su cui Purity si muove alla ricerca della doppia verità su cui corre la trama del romanzo: quella che riguarda il Sunlight Project e il suo carismatico leader, Andreas Wolf, e quella che la coinvolge personalmente, perché ha a che fare con la ricerca del padre di cui sua madre Anabel non le ha mai svelato nulla. Il romanzo gioca dunque con gli stereotipi del genere, ma ritorna anche su alcune costanti che si erano rivelate sia nelle Correzioni che in Libertà: il senso di oppressione della famiglia, il potere e le sue illusioni, i confini della corporalità, il rapporto tra interiorità e storia. Ne viene fuori, però, un’opera indecisa, spuria e che funziona a intermittenza. In parte pezzo di bravura del grande romanziere americano e in parte testo che riusa i canoni della spy-story prendendosi troppo sul serio.
Gli elementi di maggior interesse stanno quasi tutti nel secondo capitolo, La Repubblica del cattivo gusto, in cui Franzen ricostruisce, con alcune buone intuizioni, il clima opprimente della Berlino Est degli anni Ottanta. L’autore segue le gesta dell’anarchico Andreas Wolf e riesce a mescolare bene le sue ossessioni personali col clima di claustrofobia che si respira negli anni della Stasi. E forse è proprio quella claustrofobia che aveva reso Le correzioni un capolavoro, che in Purity determina un effetto controproducente: nei mondi disegnati dal romanzo i protagonisti si muovono come giganti sempre in primo piano, con il resto che se ne sta sbiadito e sullo sfondo. Anche le migliori intuizioni, che riguardano il rapporto tra forme tradizionali di informazione e nuovi media informatici, non vengono sfruttate fino in fondo: «Questa gente vomita informazioni. Ci vuole un giornalista per confrontare, riassumere e contestualizzare quello che hanno vomitato. Magari non siamo sempre mossi dalle migliori intenzioni, ma almeno ci interessa il destino della civiltà. Siamo adulti che cercano di comunicare con altri adulti. Loro somigliano più a dei selvaggi» (p. 559). L’ossessione dell’informazione e il culto della personalità diventano giochi sterili, come inconsistente è la protagonista femminile. Il limite maggiore di Franzen sta nell’aver scritto un romanzo su una donna che resta schiacciata – chissà quanto volontariamente – da due figure maschili. Andreas Wolf e Tom Abernant, che all’inizio sono personaggi di contorno rispetto a Purity, diventano progressivamente i due rivali maggiori, mentre le figure femminili restano preda di emozioni patetiche, o di spinte prevedibili: silfidi irraggiungibili, apparizioni goffe, ingenue, o al massimo seducenti. Nelle ultime pagine questa contraddizione trova espressione in un doppio finale: c’è quello drammatico e roboante che coinvolge il duello fra gli Übermenschen Tom e Andreas, e c’è quello grottesco e sbrigativo che riguarda Purity e Anabel, la madre-fantoccio incapace di affrontare la realtà. Le accuse di maschilismo che hanno coinvolto Franzen sembrano cogliere, almeno parzialmente, un grave limite di Purity: il romanzo è pieno di intuizioni suggestive – le illusioni alimentate dal web, le contraddizioni storiche ed economiche che hanno coinvolto l’Occidente nei suoi ultimi trent’anni di vita, il rapporto morboso madre-figlia –, ma lo fa attraverso una protagonista a cui lo scrittore non sembra concedere grosso credito. Un personaggio al centro di conflittualità complesse, eppure tristemente piatto, incapace di essere all’altezza di quello che le si muove, freneticamente, attorno.
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